“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”, così scriveva Márquez nella sua autobiografia “Vivere per Raccontarla”. In questa breve frase forse è già racchiuso il senso della magia che avvolge ogni cosa, trasformando la dura realtà in un romanzo. Accoglierei questo aforisma quasi alla stregua di un invito a fare della propria esistenza una buona narrazione, come quelle storie colombiane che era solito ascoltare lo scrittore nel corso della sua infanzia. Non saprei dire se si tratti di un messaggio consolatorio, di certo è una prospettiva estremamente suggestiva.
La sua autobiografia Vivere per Raccontarla la scrisse nel 2002, quand'era ormai settantenne. Egli descriveva la sua infanzia e la sua giovinezza, e narrandola compiva un vivace affresco di un’America Latina dei suoi tempi. L’atmosfera in cui egli ci immerge richiamava molto il mondo di Macondo, la cittadina immaginata dallo scrittore nel romanzo Cent'anni di solitudine, un agglomerato fondato da un gruppo di famiglie capitanate dal suo personaggio José Arcadio Buendía.
Imparare a raccontare, spese buona parte della sua vita ad apprendere l’arte del racconto e gli riuscì talmente bene che nel 1982 gli fu riconosciuto il Premio Nobel per la letteratura. Pablo Neruda aveva definito il romanzo Cent’ anni di solitudine, come il miglior romanzo in lingua spagnola dopo il Don Quichotte di Cervantes.
Marquez una volta sostenne che “tutti gli esseri umani hanno tre vite: una privata, una pubblica e una segreta”. Questa asserzione rimane ancora di attualità, tanto da essere stata ripresa nel film “Perfetti Sconosciuti” di Paolo Genovese.
Mi è capitato di soffermarmi ad ascoltare un podcast su radiofrance.fr, un affascinante approfondimento radiofonico sulla sua vita e le sue opere.
Lo scrittore nacque ad Aracataca, un comune della Colombia del Nord. Un territorio caraibico e colorato, a dipingerlo sarebbe risultato un paesaggio a tinte forti, attraversato da personaggi surreali e profonde passioni. Il folklore, il racconto magico, i duelli e il pathos della vita; tutto era già presente nella genetica di quel bambino dalla fervida immaginazione. La casa dei nonni avvolta da un mistero, i racconti terrificanti e leggendari dell’America centrale, la povertà e la fascinazione. Il padre era un telegrafista, aveva tentato la via alternativa della farmaceutica omeopatica ma senza alcun successo.
La madre era alle prese con una famiglia di undici figli legittimi, una situazione di indigenza che lo avrebbe accompagnato fino all’età adulta. Lo stesso autore raccontava che giunto ai quarant’ anni, si trovò in difficoltà ad inviare il suo manoscritto Cent’anni di Solitudine per mancanza di soldi per la spedizione. Il romanzo aveva comportato 17 anni di gestazione letteraria, un lungo periodo di grande fermento intellettuale ma anche di sacrifici, tutto in nome di un ideale espressivo supremo. A sentire le testimonianze di chi lo ha conosciuto, Marquez ha vissuto e sofferto per le sue opere, come spesso accade a coloro che vivono di pura arte. Un esempio da seguire per tutti coloro che nella vita seguono un’ispirazione.
La storia di generazioni della famiglia Buendía ma non solo, l’amore senza fine di Florentino Ariza nel romanzo l’Amore ai Tempi del Colera, una storia alla quale sono personalmente molto legato, dai cui è stato tratto anche un film con la magistrale interpretazione di Javier Bardem del personaggio principale.